Ho partecipato a MuseoMix soprattutto per curiosità. Con Anna Chiara Cimoli, mia collega di ABCittà, negli ultimi anni ci siamo confrontate spesso con esperienze italiane e straniere con focus stretto sulle pratiche di sperimentazione e coinvolgimento attivo: MuseoMix ci era sembrata una di queste.
Personalmente seguivo il progetto da un paio di anni ma, a distanza, non ero riuscita a metterne a fuoco alcuni aspetti. Mi incuriosiva soprattutto capire come funzionasse la gestione del processo e le ricadute possibili sul museo. Mi interessava meno, lo confesso subito, per formazione ed esperienza, la realizzazione del prototipo in sé per sé.
Gand, la destinazione che ho scelto, è una città molto bella. E parimenti il museo che ci ospita. Siamo al Musée des Beaux-Arts un museo pensato, ragionato, recentemente ristrutturato con un’attenzione evidente al dialogo con i visitatori secondo strategie differenziate e sensibili.
MuseoMix inizia a breve. L’atmosfera è la stessa respirata la sera d’arrivo quando molti di noi sono stati ospiti a Bruxelles degli stessi organizzatori. Il clima è leggero; si respirano quella cura del dettaglio e un certo slancio propositivo che lasciano intendere solo cose buone.
Ci aspetteranno tre giorni molto intensi. Già alla fine del primo è richiesto di presentare l’idea in sintesi. Nel nostro caso, a partire da un confronto in plenaria sul tema dell’orientamento, la discussione identifica subito due poli chiave (ordine / disordine) intorno ai quali ipotizzare una pratica di gioco e interazione.
Il nodo centrale di questo tempo di scambio e confronto si avvale certamente di un principio di negoziazione mai ovvio. Anche se, dal punto di vista dei visitor studies, appare complesso mettere in discussione assunti e consapevolezze che una formazione in materia tende a dare per acquisite. La composizione casuale dei gruppi, del resto, le diverse età dei partecipanti e le loro esperienze implicano necessariamente la piena accettazione di questo approccio anche se il rischio chiaro che ne emerge è la realizzazione di progetto/prototipi già tracciati o persino superati che non tengano conto delle riflessioni più attuali dal punto di vista dei contenuti e delle strategie.
Dopo la condivisione del primo giorno delle idee, quindi, dal successivo si inizia a lavorare sulla definizione pragmatica del prodotto e il confronto con i maker spinge inevitabilmente alla modifica dei progetti. Il nostro prende la forma di un’applicazione che orienta lo spettatore a partire dalle suggestioni emotive delle singole opere, nella definizione di un prodotto che esplicita i suoi approcci nel concetto di serendipity. Nasce così Wonderland, un’applicazione attraverso la quale viene chiesto al visitatore di perdersi, ricostruendo una mappa solo a partire dalle proprie motivazioni all’interno di un percorso che non dovrà essere agito dal senso del dovere. Che non sia il valore dell’opera, il suo essere famosa, dunque a guidare una visita ma il desiderio di avvicinarsi ed approfondire solo opere che sentiamo affini attraverso contenuti diversi che vanno dallo storytelling, all’uso di domande o testi interdisciplinari.
Dal secondo giorno il confronto con i tecnici si fa più stretto e così il ricorso alle competenze dei singoli: il gruppo, nel mio caso, diventa molto affiatato e produttivo. Tutti i partecipanti sono pienamente coinvolti: chi si occupa della grafica, della comunicazione, del contatto coi maker. Nel gruppo abbiamo anche una ragazza americana che verifica la correttezza di tutti i testi e una responsabile dei contenuti che decide di raccontare lo svolgimento del processo attraverso uno storyboard illustrato.
Nel corso di questa progettazione, si alternano diverse opportunità di confronto: con gli organizzatori, con i tecnici, con gli altri gruppi. La dimensione sfuggevole del tempo però fa si che lo spazio per un confronto analitico soprattutto sui contenuti e i presupposti teorici resti ai margini.
La progettazione comunque prosegue intensa.
L’ultimo giorno, alle ore 16 ci sarà modo di far sperimentare al pubblico i diversi prototipi. Nel nostro caso fino all’ultimo l’applicazione sembra non funzionare e nonostante da un punto di vista grafico e dell’interfaccia sia molto bella risulta debole nella sua spendibilità, ragione per cui ai visitatori racconteremo soprattutto l’idea, accompagnandoli in parte in un’esplorazione che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere autonoma.
Poi un aperitivo finale, i brindisi, lo scambio delle email, i saluti, gli abbracci.
E MuseoMix finisce così. Bello e intenso.
Con certe idee che frullano in testa, forse, si potrebbe:
• condividere in anticipo i temi in modo tale da consentire il tempo per una riflessione strutturata
• formare i gruppi la sera prima, magari a cena (se ne parlava anche a Reggio Emilia) in modo tale che il confronto progettuale si nutra di un clima di minima conoscenza reciproca
• facilitare il confronto con le buone pratiche affini ai propri progetti. Una room dedicata agli esperti con i quali confrontarsi rispetto all’esistente e alle teorie
• spingere affinché emergano proposte alte, davvero di utilità; per il museo ospitante in primis, comunque opensource, spendibili nel medio/lungo termine
• ripensare il coinvolgimento dei professionisti. Bene l’idea di farsi promotori di un fare gratuito: il museo chiama e noi ci attiviamo. Ma a quel punto occorre rimmaginare nuove strade di scambio di valore per non sottostare a quell’economia che i lavoratori della cultura tanto accusano. Che avvenga piuttosto quantomeno a livello formativo, con un affondo molto più strutturato. Una riflessione sulla sostenibilità economica dei partecipanti, potrebbe anche starci, ma presupporrebbe una selezione differente
• le proposte che ne emergono, i prototipi non sono sempre prodotti conclusi. Ciò detto, varrebbe la pena in ogni caso di ragionare in termini di valutazione strutturata delle ricadute: da sottoporre ai colleghi, agli altri gruppi e soprattutto ai visitatori
• ragionare su una maggiore scansione del processo, con una più strutturata definizione degli strumenti per la riflessione. Ogni facilitatore era libero di portare con sé i propri (io ho scelto delle carte per la facilitazione) ma sarebbe interessante lasciar emergere dal confronto (o da una formazione) nuove strategie
A distanza di alcune settimane posso comunque dire che l’esperienza è certamente stata positiva ed arricchente. Con uno sguardo alla prospettiva italiana sarebbe interessante se sapesse lasciar ulteriormente emergere la volontà di fare, di condividere, secondo un’ottica dalle prospettive altissime. Sarebbe utile se sapesse coinvolgere i professionisti “della vecchia guardia”, che incitasse al confronto anche le professionalità più reticenti ai principi della mediazione museale.
Che continuasse a motivare i presenti alle idee a furia di tazze di caffè ma anche che ne ricalibrasse le finalità e le ricadute nel medio termine perché, soprattutto in un contesto di fragilità di settore come il nostro, l’investimento fatto sia capace di offrire delle risposte. Piccole, artigianali, poche fra le tante necessarie ma anche capaci di lasciar spazio a progetti davvero possibili.
Maria Chiara Ciaccheri